L’ITALIA, COME SI SA, ENTRÒ IN GUERRA UN ANNO DOPO, IL 24 MAGGIO 1915. GLI STORICI DOCUMENTANO CHE LA GENTE ERA MOLTO MENO ENTUSIASTA DI QUANTO SI FOSSERO MOSTRATI (RELIGIOSI COMPRESI) I FRANCESI, I TEDESCHI E GLI AUSTRIACI. TUTTI PERÒ FECERO IL LORO DOVERE: GLI OLTRE CINQUE MILIONI E MEZZO DI MILITARI, LE LORO DONNE IN PATRIA, I PARENTI DEI 650MILA MORTI Con una sfilata militare cui parteciperanno reparti di 72 nazioni si commemorerà a Parigi, il 28 giugno, il centenario dallo scoppio della prima guerra mondiale. Quel giorno, un secolo fa, da un nazionalista serbo, Gavilo Princip, veniva assassinato a Sarajevo l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono austriaco. La drammatica spirale di avvenimenti che seguì portò, in agosto, al conflitto armato principalmente in Europa. 50 milioni di combattenti dei cinque continenti; in quattro anni almeno 10 milioni di morti (la cifra è per difetto); 186 miliardi di dollari – di allora – in spese militari, con incalcolabili danni materiali e alle popolazioni civili. Una cifra significativa della follia collettiva sta nel fatto che soltanto nel 1974 si tornerà in Europa al prodotto interno lordo del 1914. Si accumulerà un patrimonio di odi e di vendette per oltre due decenni, sino al 1939-1945, al momento del secondo carnaio, che ha anch’esso coinvolto popoli di ogni parte del pianeta.
È lecito quindi sperare che non siano celebrazioni ma commemorazioni, come ha ammonito uno studioso francese, Alfred Grosser, preoccupato dall’enfasi con la quale nel suo paese si ricorda l’avvenimento. Attorno al quale alcuni storici parlano di incompetenza delle classi dirigenti di allora, come se tutti fossero stati sorpresi da una improvvisa tempesta e dai suoi sviluppi. Ma gli anni precedenti avevano visto un aumento smisurato delle spese belliche: se si fabbricano e si acquistano armi la prospettiva è di doverle utilizzare.
Possiamo meravigliarci dei non pochi intellettuali favorevoli all’intervento, né dobbiamo dimenticare che anche i socialisti di ogni paese, a parte esigue minoranze, appoggiarono le decisioni ufficiali. Il pacifista Romain Rolland considerava la guerra europea “la più grande catastrofe della storia, da secoli, la rovina delle nostre speranze più sane sulla fraternità umana”; altri concordano nel ritenerla “la brutalizzazione della società occidentale”. George Bernard Shaw, l’anglo-irlandese più tardi Premio Nobel per la letteratura, lanciava una invettiva contro lo “scandalo” delle nazioni cristiane le une contro le altre armate e del clero nazionalista che aveva trasformato “Cristo in Marte”.
La voce profetica di Benedetto XV, eletto al soglio di Pietro il 13 settembre 1914 – a ostilità già iniziate – non fu ascoltata non soltanto dai capi politici, ma anche dall’opinione pubblica, da quei cristiani che – molti per lealtà nei confronti delle istituzioni – si scannarono sui vari fronti. Nella sua prima enciclica Ad beatissimi Apostolorum principis il papa aveva scritto: “Le nazioni, le famiglie, gli individui gemono nei dolori e nelle miserie, tristi seguaci della guerra; si moltiplica a dismisura, di giorno in giorno, la schiera delle vedove e degli orfani; languiscono i commerci, i campi sono abbandonati, sospese le arti, i ricchi nelle angustie, i poveri nello squallore, tutti nel lutto”.
La “gigantesca carneficina, l’inutile strage, il suicidio dell’Europa”, sono espressioni di Benedetto XV passate alla storia, insieme con il vano tentativo di porsi come mediatore di pace fra i contendenti nella “nota” del 1917 ai capi delle nazioni in guerra. Ma intanto la santa sede non si era limitata agli ammonimenti: istituirà un apposito ufficio che sbrigò più di ottocentomila pratiche per l’assistenza ai prigionieri e alle famiglie dei caduti, feriti e dispersi.
L’Italia, come si sa, entrò in guerra un anno dopo, il 24 maggio 1915. Gli storici documentano che la gente era molto meno entusiasta di quanto si fossero mostrati (religiosi compresi) i francesi, i tedeschi e gli austriaci. Tutti però fecero il loro dovere: gli oltre cinque milioni e mezzo di militari, le loro donne in patria, i parenti dei 650mila morti. 264mila gli abruzzesi arruolati; caddero in 26mila, il 13 per cento del totale, con otto medaglie d’oro e numerose altre decorazioni al valore militare e civile. Anche i consacrati, 2400 cappellani e circa 25mila fra religiosi e seminaristi, furono assegnati ai servizio di barellieri al fronte o di medici e infermieri negli ospedali e nei sanatori.
Come testimonianze oggi, dopo la morte degli ultimi soldati di quella epopea (un italiano, un francese e un anglo-australiano), restano soltanto i monumenti e la copiosa documentazione che non riguarda solamente i grandi avvenimenti collettivi, da Verdun ai laghi Masuri al Piave, ma anche le vicende personali, le corrispondenze familiari, i diari, le lettere, i percorsi della vita quotidiana. Fra affetti, dolori, auspici, paure, denunce e, quasi generalmente, con una speranza: la pace.
Purtroppo non tutti i reduci compresero la lezione del conflitto e portarono con sé un carico di risentimenti che, specie fra gli sconfitti tedeschi, si tramuterà in delinquenza politica. Così il periodo fra la prima e la seconda guerra mondiale è stato fra i più sinistri della storia europea. Cominciando dal genocidio degli armeni, nel 1915, e proseguendo con le violenze sui civili nei territori occupati, per arrivare alla rivoluzione sovietica con gli stermini che l’hanno seguita. Anche le altre dittature sono conseguenza del 14-18, e i quaranta milioni di morti del 1939-1945 fra combattenti e civili, i sei milioni di ebrei (un quarto di loro erano bambini) nei lager nazisti, ne furono l’esito finale.
Il “secolo breve” si è concluso l’8 maggio 1945. In quell’arco di tempo sarà veramente cambiato il mondo e l’Europa dovrà rassegnarsi a una funzione secondaria, rispetto a Stati Uniti e Russia in un primo tempo, di fronte a Usa e Cina oggi; anche se la Ue sarebbe in grado, fra la tante incertezze, di riassumere il suo ruolo di potenza mondiale. Ma la sola guerra che deve fare, a differenza di quella di cento anni fa, è a favore della pace.