A CACCIA DI NEUTRINI

Era il 1987 quando esplose una supernova nella galassia satellite della via Lattea, chiamata Grande Nube di Magellano, e circa tre ore prima che giungesse a noi la sua luce visibile, un flusso di neutrini fu osservato simultaneamente in tre rivelatori differenti (distanti tra loro migliaia di km), che erano stati pensati per “vedere” i neutrini solari, non quelli intergalattici. Anche se il numero di neutrini “raccolti” in seguito all’evento fu esiguo (soltanto una ventina) questo fu sufficiente a confermare le nostre previsioni sull’enorme quantità di energia sprigionata alla morte di una stella, e che soprattutto i neutrini ne erano gli efficacissimi trasportatori.

Questa misteriosa particella popola in modo invisibile tutto il nostro universo. La sua esistenza fu ipotizzata negli anni 30 per bilanciare l’equazione di un processo conosciuto, ma per la sua dimostrazione sperimentale dovemmo attendere fino agli anni 50. Oggi abbiamo le idee più chiare e sappiamo che ogni secondo sull’unghia del nostro pollice passano la bellezza di 60 miliardi di neutrini: essi provengono da tutte le parti del nostro universo, dal Sole, dal cuore della Terra, dalle lontane esplosioni stellari di supernova, e alcuni sono nati con l’Universo stesso e dunque sono vecchi di miliardi di anni.

L’impresa che l’uomo ha compiuto è stato trovare il modo di rivelarli, nonostante essi siano capaci di attraversare come un soffio tutto l’interno della Terra. Per sapere come sia possibile “vederli” ho chiesto una spiegazione al fisico particellare Riccardo Biondi, postdoctoral a L’Aquila:

“Rivelare i neutrini è un mestiere molto difficile. Questo perché interagiscono solo attraverso la più debole delle interazioni fondamentali con la materia. Inoltre i segnali che lasciano nei rivelatori sono molto deboli e vengono facilmente oscurati dal rumore di fondo dato dalla radioattività ambientale e dai raggi cosmici. Per questo – spiega Riccardo Biondi – gli esperimenti che vogliono catturare i neutrini devono essere schermati, ovvero messi nella condizione di “silenzio cosmico” e questo si può ottenere ad esempio andando nelle profondità della terra, in delle miniere oppure come nel caso del nostro laboratorio nazionale del Gran Sasso, dentro una montagna. In particolare, i laboratori del Gran Sasso, sono schermati da circa 1400 metri di roccia dolomitica, che, oltre a ridurre di un fattore un milione il flusso dei raggi cosmici che riescono effettivamente ad arrivare nei laboratori, è anche povera di elementi radioattivi come Uranio e Torio. L’esperimento IceCube, poi, usa un approccio diverso: il rivelatore è stato installato al polo sud, sotto 1500 metri di ghiaccio antartico. Mentre, KM3NeT attualmente in costruzione, sfrutterà la profondità delle acque del mar mediterraneo per proteggersi dai raggi cosmici”.

Rimaniamo affascinati dai misteri dell’universo e dalle tecniche umane che lo sondano. Eppure tanto deve essere ancora scoperto, e tanti strumenti devono essere inventati perché una nuova scoperta diventi realtà.

L'ECO di San Gabriele
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