GRAPPOLI D’AMORE

Canterò per il mio amato il suo canto d’amore per la sua vigna…». Così inizia una delle più belle parabole bibliche del primo Testamento. Si trova nel libro di Isaia e canta di un uomo che aveva una vigna, simbolo, però, di una sposa. Ed ecco la poesia che ama le metafore, i paragoni, gli esempi più sensibili e popolari, per ispirare i suoi sentimenti più sublimi. I profeti ne sono maestri e sfoggiano, spesso, una maestrìa letteraria e stilistica che non ha niente da invidiare a quella dei più grandi autori dell’antichità classica: (Sofocle, Saffo o Asclepiade di Samo). “Il mio amato aveva una vigna su un fertile colle. Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate; in mezzo vi aveva costruito una torre e scavato anche un tino” (Is 5,1-2a). La storia è narrata in terza persona da qualcuno che si presenta come amico amato di quel tale che, avendo una vigna, l’aveva coltivata e curata, munendola di ogni accessorio atto a proteggerla e a ottimizzarne la produzione. Come un Cyrano de Bergerac, chi scrive intona la canzone d’amore del suo amico verso la sua donna. Purtroppo, però, quello che parrebbe un epitalamio – un canto di nozze – si rivela presto un autentico lamento, perché la vigna reca una delusione senza pari. “Aspettavo che producesse grappoli maturi, ma essa non fece che raspi senza chicchi” è costretto a dire il cantore (Is 5,2b). Un coup de theatre! Come mai questa vigna che il suo sposo vignaiolo aveva curato a perfezione non dà allo stesso i frutti sperati? Il menestrello di strada si rivolge, allora, alla gente che passa, per sapere il perché di questa stranezza: “Ora, abitanti di Gerusalemme, siate voi giudici fra me e la mia vigna: Cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi?” (Is 5,3-4). Parole che rivelano le identità che si celano sotto l’abito dei vari personaggi: scopriamo che il vignaiolo/sposo è Dio, la vigna/sposa è Gerusalemme, la città dei Giudei, mentre il cantore è il profeta che fa da mediatore di questo amore grande e difficile. Dio, infatti, si è preso cura della sua “vigna” con straordinario affetto, ciò nonostante essa non ne ha corrisposto lo slancio e la lealtà, la fedeltà e la grazia. Questo si esprime con quei “raspi” rinsecchiti e tristi che ostenta tra le foglie. Dio si aspettava, invece, la gioia di grappoli vermigli, pronti a fruttare un vino pregiato. Ed ecco la forza della metafora: il vino che la vigna di Dio – Gerusalemme – avrebbe dovuto produrre, altro non era che il diritto e la giustizia: “Egli si aspettava diritto ed ecco delitto, si aspettava giustizia ed ecco nequizia” (Is 5,7). Erano quelli i grappoli che lo sposo avrebbe voluto cogliere nel seno della sua sposa: la gioia di un vino d’amore e di fraternità.

Esploratori

“Mosè dunque li mandò a esplorare la terra di Canaan e disse loro: Salite attraverso il Negheb; poi salirete alla regione montana e osserverete che terra sia (…) come sia il terreno, se grasso o magro, se vi siano alberi o no. Siate coraggiosi e prendete dei frutti del luogo. Erano i giorni delle primizie dell’uva. Salirono dunque ed esplorarono la terra (…) Giunsero fino alla valle di Escol e là tagliarono un tralcio con un grappolo d’uva, che portarono in due con una stanga, e presero anche melagrane e fichi” (Nm 13,17-23). Per capire come la vigna diventi il simbolo della terra dove Dio andrà ad abitare col suo popolo – dopo averlo liberato dalla schiavitù dell’Egitto – occorre tornare a questo fatto capitato durante il lungo viaggio dell’esodo. A un certo punto Mosè volle inviare degli esploratori nel paese promesso. Essi lo trovarono colmo di grappoli così grandi che, per trasportarne uno solo, dovettero sospenderlo su una stanga che appoggiava sulle spalle dell’uno e dell’altro! Da quel grappolo tutti gli israeliti potevano capire quanto fecondo fosse il paese dov’erano diretti. Era, davvero, una terra bella e carica di dolcezze: di fichi, di olivi e di vigne. Dopo avergliela donata, Dio stesso si sarebbe preoccupato di coltivarla e custodirla quasi fosse un nuovo giardino dell’Eden! Dice, infatti, ancora il profeta Isaia: “In quel giorno la vigna sarà deliziosa, cantatela! Io, il Signore, ne sono il guardiano, a ogni istante la irrigo; per timore che la si danneggi ne ho cura notte e giorno (…) Vi fossero rovi e pruni, muoverei loro guerra, li brucerei tutti insieme” (27,2-4).

Prendersi cura

“Io ti avevo piantato come vigna pregiata, tutta di vitigni genuini; come mai ti sei tramutata in tralci degeneri di vigna bastarda?” (Ger 2,21). Torna, dalla bocca di un altro profeta, la denuncia dell’incuria di Israele a danno della vigna piantata dal suo Dio. Vale a dire: a danno di sé stessa! Gerusalemme si mostra incapace di produrre il frutto della terra ricevuta in dono. La delusione è grande: gli umani possono “sterilizzare” la linfa della vita che viene da Dio. Occorre, infatti, che anche Israele si prenda cura del suo paese, con la fedeltà, la giustizia, la responsabilità, la passione. Altrimenti la vigna diventerà legno secco di cui il suo Dio, deluso, sarà costretto a dire: “Come io metto nel fuoco a bruciare il legno della vite al posto del legno della foresta, così io tratterò gli abitanti di Gerusalemme” (Ez 15,6).

La vite vera

“Io sono la vite vera e il Padre è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto (…). Come il tralcio non può portare frutto da sé stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano” (Gv 15,1-6). Si tratta di una vite feconda, poiché mossa dalla linfa d’amore del Signore: “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore (…) Vi do un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri” (15,9.12). Sta a noi coltivare e custodire la vigna di Dio sulla terra col concime dell’amore fraterno. Così potremo attendere quella primizia di grappoli che solo una corrispondenza d’amore può far germogliare. Come gli innamorati del Cantico dei Cantici, ci diremo l’un l’altro: “Vieni, amato mio, andiamo nei campi, passiamo la notte nei villaggi. Di buon mattino andremo nelle vigne; vedremo se germoglia la vite, se le gemme si schiudono” (7,13).