UNA SLOT MACHINE CON IL GRILLETTO

LE ARMI NEL MONDO
By Angelo Paoluzi
Pubblicato il 30 Maggio 2016

Nel mondo circolano 875 milioni di armi da fuoco e 12 miliardi di pallottole…

C’è da rabbrividire al pensiero che circa il 3 per cento del Pil mondiale graviti attorno agli strumenti di distruzione. Ogni minuto una persona viene uccisa, ogni anno i morti, un terzo minori, sono oltre cinquecentomila. Le continue esortazioni di papa Francesco affinché si metta fine a un simile scempio

Non per accanimento moralistico torniamo ancora a occuparci di una delle piaghe da cui è afflitta l’umanità: il commercio delle armi. Si registrano quotidianamente i numeri delle vittime di violenze, anche private, e di guerre delle quali si è perso il conto (trenta, pare, quelle ufficiali, alcune diecine le altre, “striscianti”): ogni minuto una persona viene uccisa, ogni anno i morti, un terzo minori, sono oltre cinquecentomila. Circolano al mondo 875 milioni di armi da fuoco e dodici miliardi di pallottole, complessivamente per un valore di ottanta miliardi di euro, secondo soltanto alle cifre di affari del narcotraffico. Senza contare i duecento milioni di mine antiuomo depositate negli arsenali o disperse sui campi di battaglia e destinate a “vendette postume” sugli innocenti, per lo più bambini.

C’è da rabbrividire al pensiero che circa il 3 per cento del Pil mondiale graviti attorno agli strumenti di distruzione. Dei 1676 miliardi di dollari di spese ufficiali, calcolate dall’autorevole Sipri (l’Istituto di ricerche internazionali sulla pace) di Stoccolma, risulta che più di un terzo, 600 miliardi, ricade sugli Stati Uniti, mentre altri concorrenti si fanno avanti: l’India, 14 per cento, la Cina, con il 4,7, mentre il maggiore balzo in avanti lo fanno l’Arabia Saudita (+ 275%), addirittura preceduta dal Qatar (+279%), e seguiti da Emirati Arabi Uniti, Pakistan, Australia, Russia. Con una cifra di riferimento per l’Asia: + 187 per cento negli ultimi 25 anni.

Si capiscono quindi le parole risentite di papa Francesco in occasione della presentazione delle lettere credenziale di sette ambasciatori d’Europa, Asia, Africa e Centroamerica: “Il commercio delle armi ha l’effetto di complicare e allontanare la soluzione del conflitto, tanto più perché esso si sviluppa e si attua in larga parte al di fuori delle legalità”. Con tenacia il pontefice ripete, specialmente nelle sedi di maggiore irraggiamento internazionale, l’esortazione contro la produzione e la vendita di strumenti di morte. Lo aveva chiesto anche, nel settembre dell’anno scorso, nelle allocuzioni pronunciate dinanzi al Congresso degli Stati Uniti e alle Nazioni Unite; e continua a ripeterlo in ogni circostanza in cui si evochino i problemi della pace, aggiungendo qualche ammonimento spirituale, come in occasione di un Angelus domenicale: “I corrotti e i fabbricatori di armi e chi fa la tratta di persone umane non sono felici e certo non si conquistano la vita eterna”.

È la pace da tutti invocata ma, in concreto, raramente rispettata. Come rischia di accadere per la decisione presa dall’Euro-parlamento il 25 febbraio scorso di sottoporre a embargo le forniture di armi all’Arabia Saudita. Dal nostro paese sono partite sei spedizioni di bombe (alcuni milioni di ordigni) impiegate da Ryad per condurre la guerra in Yemen. In violazione oltretutto dell’accordo del 2013, approvato all’Onu da 154 governi (fra i quali il nostro) su 190, e che interdicono la vendita di armi là dove sono in atto situazioni conflittuali. La realtà è che un terzo del materiale bellico italiano (per un valore di 1,250 miliardi) è attualmente diretto verso regimi dittatoriali e implicati in guerre o repressioni. Così avviene, per esempio, con l’Egitto, cui il nostro paese è stato sino a oggi l’unico dell’Unione Europea a fornire armi leggere, nel 2014-2015, nonostante la decisione, presa dalla stessa Ue, di sospendere quel tipo di esportazioni verso il Cairo. Ma la Francia segue i nostri passi e non si fa scrupolo di firmare vantaggiosi contratti di materiale bellico.

Per rimanere a casa nostra, nessuna cifra è misteriosa o nascosta: ogni anno viene pubblicata una relazione governativa dedicata all’export militare. Ma dal 2008 nessuno (dalle sinistre ai grillini) ha aperto in parlamento un dibattito sull’argomento. In tal modo la Finmeccanica, che detiene circa la metà del pacchetto azionario di un potente consorzio europeo, ha venduto 28 caccia Eurofighter al Kuwait, dal quale si sussurra che partano finanziamenti all’Isis e nel quale si effettuano transazioni finanziarie che interessano il califfato, per la vendita del petrolio, dei reperti archeologici e forse dei riscatti degli ostaggi. E verso gli Emirati Arabi Uniti (anch’essi con qualche complicità con l’Isis) sono partiti di recente otto droni di fabbricazione italiana, prezzo 316 milioni di euro.

Perciò se il Medioriente è una polveriera lo si deve anche a specifiche responsabilità “commerciali” dell’Occidente e c’è un velo di ipocrisia nel lamentarsi della minaccia fondamentalista che trova alimento negli arsenali vaganti per il pianeta. Con qualche considerazione marginale, per esempio sul fatto che il continente più povero, l’Africa, “consuma” da solo un quarto delle armi.

Senza contare, poi, che oltre quello, diciamo, legale, c’è un commercio illegale, valutato in 1200 miliardi di dollari. Esso non di rado passa attraverso transazioni che coinvolgono rispettabili istituti di credito, “le banche armate”, come vengono definite. E che del resto operano alla luce del sole: c’è un bell’elenco di quelle italiane coinvolte in quei traffici, e di quelle tedesche si sa che finanziano per circa mille miliardi di euro le industrie di esportazione militare. In una cinica danza, viene voglia di dire, sull’orlo del cratere.

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