Una riflessione sull’eternità che ci attende

By Mons. Antonio Riboldi
Pubblicato il 1 Novembre 2016

La moltitudine immensa che nessuno poteva contare è la visione che l’apostolo Giovanni usa per descrivere quanti popolano il paradiso, ossia la moltitudine dei santi. Quando ci fermiamo sulla realtà che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, a prima vista potrebbe sembrare un’affermazione esagerata. È così raro ammirare i tratti di santità nella gente comune, che ci sta intorno che, a volte, pensiamo al paradiso – la sola abitazione che era ed è nella mente del padre quando ci ha creati – come una meta irraggiungibile. “Ma chi ci andrà mai?”, ci si chiede. E questo soprattutto confrontando la grande fatica che facciamo per trapiantare in noi il divino, che è poi la santità.

Vorremmo essere umili e vediamo i nostri gesti imbrattati di superbia – tanto è profonda – che a volte non riusciamo a contenere. Vorremmo, come ci chiede Gesù, essere poveri in spirito e continuamente le nostre mani sono sporche delle cose o idoli cui siamo attaccati, fino a diventare chiusi alla carità e gretti anche nella più elementare generosità, unica maestra per insegnarci a liberare noi stessi per aprirci alle sofferenze degli altri. Vorremmo, forse, contenere nel cuore tutta la gente, soprattutto coloro che soffrono, fino a diventare solo amore – come era madre Teresa di Calcutta e con lei tutti i santi della carità – e poi ci accorgiamo che per indifferenza o per la scelta di stare comodi, non riusciamo neppure a mettere il naso fuori dagli interessi della nostra vita. Chiediamo al padre continuamente misericordia per il nostro stato di peccatori e, dopo un attimo, ripetiamo le stesse mancanze fino a dubitare di essere sinceri nella nostra richiesta di perdono e, in aggiunta, dimentichiamo quasi sempre l’essenziale.

Viene da chiederci: la santità, incredibile, infinita, meraviglioso respiro dell’anima, a cui non si può rinunciare senza negare noi stessi e la ragione della nostra vita, è solo un atto eroico di qualcuno o è meta di tutti? È doveroso chiedercelo, in questo mese di novembre, in cui la nostra riflessione si affaccia sulla grande moltitudine di santi e defunti. Tutti abbiamo parenti, amici, che sono già presso Dio. Ognuno ha giocato la propria vita: chi certamente in modo santo, magari soffrendo tanto, e chi non ci ha nemmeno pensato, da vero incosciente. Si presenta, allora, la riflessione sulla morte, che vorremmo a volte scacciare, ma che è per tutti. Fermandoci presso il sepolcro dei nostri cari viene spontaneo, nel profondo del cuore, affermare che non è possibile che il grande dono della vita, uscito da Dio immortale, che ci ha creati a sua immagine, finisca in un pugno di terra. Così come non è possibile che l’amore che ci univa, qui in terra, sia finito, sapendo che l’amore non conosce fine e partecipa dell’eternità.

La vita, lo sentiamo tutti nell’esperienza quotidiana, è il valore fondamentale e il più serio da noi posseduto. Pensiamo alla vita di una mamma in casa, la vita di un giovane o una giovane nella sua fatica di crescere bene, la fatica di un padre di famiglia sul lavoro, di un missionario o di un sacerdote nella cura delle anime, di una consacrata che, scelta e chiamata da Dio, si consuma nel silenzio e nell’amore, di un ammalato costretto a fare i conti ogni istante con la sofferenza o di un anziano privato di tutti i suoi affetti, che continua ad amare nella solitudine. È infinita la lista. Sulla vita investiamo tutto di noi: fede, dignità, felicità, amore, onestà, sofferenza . Almeno nella volontà – spero per tutti senza eccezioni – si vorrebbe fare della vita un racconto che splenda agli occhi del mondo per la testimonianza data. “Siate una lucerna sul monte”, dice Gesù.

Ho sempre nel cuore l’esempio della famiglia a cui Dio mi ha affidato. È vero che erano altri tempi, ma la ricerca della santità deve avere gli stessi binari. Mi impressionava la fede di mamma che, ogni giorno, iniziava la sua giornata con la santa comunione e diceva a noi figli, dopo la prima comunione, quando ci lamentavamo per il digiuno: “Meglio una santa comunione che una buona colazione”. Papà, prima di recarsi al lavoro, accettava volentieri di pregare con mamma, e alla sera era lui che conduceva il santo rosario, recitato da tutta la famiglia. Vivevano la fede come la via maestra su cui si snodava la loro vita, ma che era anche tracciare la nostra giusta via. Erano esempi feriali di quella santità, che è la spina dorsale della vita. E come loro ci sono ancora tanti, ma tanti, che guardano al cielo come la meta della vita e la vita come un cammino verso quella meta. Il mondo non parla di loro, ma che esistano è davvero una grazia e la conferma che Dio continua a operare anche oggi. Chi non vorrebbe essere tra questi amici di Dio? Solo questo è il vero senso della vita, ne è la pienezza.

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