LA SVOLTA? PER IL MOMENTO SOLO PAROLE

varie indagini disegnano un’Italia in declino
By Antonio Andreucci
Pubblicato il 1 Febbraio 2015

Dall’avvio della stagione delle riforme i vari governi hanno portato in parlamento oltre 90 decreti che, con le successive modifiche e conversioni in legge, raggiungono oltre 1,2 milioni di parole: l’equivalente di undici Divine Commedie fatte di norme e codici, che non hanno portato aD alcun decollo dello sviluppo e dell’occupazione. L’unica buona notizia arriva dal sistema sanitario  Finalmente una buona notizia: il nostro sistema sanitario funziona bene e costa un po’ meno della media Ocse. La speranza di vita è superiore a 82 anni mentre la spesa media pro capite per i servizi sanitari è di 3 mila euro (oltre 4 mila in Francia, quasi 9 mila negli Usa). “Nonostante le difficoltà legate alla fase di crisi economica e finanziaria attraversata da molti anni e le non poche aree di miglioramento su cui è possibile agire, il sistema sanitario italiano è uno fra i sistemi più avanzati ed è capace di generare risultati apprezzabili, in alcuni casi eccellenti”. Che colpo! A scriverlo non è il ministero della Salute, ma il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel), che ha studiato il Doing Business Report, un rapporto stilato ogni anno dal gruppo delle banche mondiali (Wbg). Ci sono, comunque, delle differenze di risultato al nord e al sud, con il Mezzogiorno che segnala dati meno buoni. Ma, complessivamente, sembra che non siamo gli ultimi della classe, in barba alle attese lunghissime e assurde per gli esami nelle strutture pubbliche. Non solo: va meglio anche la tanto tartassata giustizia che fa registrare una diminuzione dei tempi di attesa per la definizione delle cause civili. Ora – secondo il rapporto – bastano… appena 1.185 giorni (vale a dire tre anni e due mesi), contro i 1.210 di prima (tre anni e tre mesi). Un bel passo in avanti, come si vede.

Eppoi? Le buone notizie finiscono qui. Proprio dalla giustizia si parte per il solito calvario: riguardo, in particolare, a quella civile, l’indice calcolato nell’ambito del World justice project (che misura la capacità del sistema di consentire ai cittadini di risolvere le controversie in modo accessibile, efficiente ed effettivo, imparziale e indipendente, in assenza di discriminazioni e pratiche corruttive), siamo terz’ultimi. Peggio di noi solo la Turchia e il Messico. Le cattive notizie riguardano anche il fisco: secondo il Cnel, l’alto livello del prelievo si unisce al maggior numero di ore necessario per pagare le imposte, così che, in base al rapporto Doing Business 2014, l’Italia si colloca al 138/mo posto ed è l’unico paese dell’Unione Europea al di sopra sia della pressione tributaria media, sia del numero medio di ore richieste per gli adempimenti fiscali.

E che dire della scuola? Le performances sono pessime: la spesa media per alunno è superiore alla media Ocse, ma con risultati in lettura e matematica inferiori alla norma. L’Italia spende molto più di Francia o Germania, e addirittura di Corea e Finlandia che, con una spesa significativamente più contenuta, sono al primo e al secondo posto nei punteggi di ambedue le discipline. C’è ancora una grande distanza tra il livello medio di istruzione della popolazione adulta (15-64 anni) e quello medio Ue: nel 2013 la quota di popolazione con un titolo di scuola secondaria superiore era del 56,5% in Italia rispetto al 71,8% nell’Ue a 27 paesi e al 69,5% nell’Europa a 15 paesi (81,9% in Germania). Seppure l’evoluzione temporale sia positiva (la percentuale italiana è cresciuta di sette punti negli ultimi otto anni) il ritmo è stato insufficiente per recuperare il ritardo in quanto nel frattempo è cresciuta nello stesso modo anche la media europea.

Che quest’anno ci si debba dare una smossa lo si evince anche da un altro rapporto, quello del Censis, nel quale si afferma che la crisi economica ha diffuso “una percezione di vulnerabilità” tale da far ritenere al 60 per cento degli italiani che a chiunque possa capitare di finire in povertà. La reazione a questa situazione è un “attendismo cinico”, per cui non si investe e non si consuma, e prevale la filosofia del “bado solo a me stesso”. Pensando al futuro, il 29% degli italiani prova ansia perché non ha una rete di protezione; un altro 29% è inquieto perché ha un retroterra fragile; il 24% dice di non avere le idee chiare perché tutto è molto incerto, e solo poco più del 17% dichiara di sentirsi abbastanza sicuro e con le spalle coperte. Non solo: purtroppo, si fanno anche meno figli, tanto che la natalità è ai minimi e l’85,3% degli intervistati ha indicato proprio nella crisi economica il freno alla procreazione.

Il nostro capitale umano è “dissipato”, secondo il Censis: quasi 8 milioni di individui non utilizzati (3 milioni di disoccupati, 1,8 milioni di inattivi e 3 milioni di persone che, pur non cercando attivamente un impiego, sarebbero disponibili a lavorare). Tutti aspettano le riforme, ma cosa emerge dallo studio? Vediamo: il rapporto sottolinea il “progressivo fallimento di molte riforme”, spesso “distaccate da un quadro coerente e inadatte a formare una visione unitaria di ciò che potrà o dovrà essere il paese nei prossimi decenni”. Il rapporto critica soprattutto l’utilizzo dei decreti legge approvati spesso con voto di fiducia. Dall’avvio della stagione di riforme (2011) i governi Monti, Letta e Renzi hanno portato in parlamento oltre 90 decreti che, con le successive modifiche e conversioni in legge, raggiungono oltre 1,2 milioni di parole, “l’equivalente di undici Divine Commedie fatte di norme e codici, che non hanno portato a alcun decollo dello sviluppo e dell’occupazione”. Lo dice il Censis. A noi resta solo di augurarci che questo sia l’anno della svolta.

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