IL PASSIONISTA CHE CURA l’ANIMA e il CORPO

intervista a padre Richard Frechette
By Gino Consorti
Pubblicato il 1 Febbraio 2017

Il medico-sacerdote americano noto in tutto il mondo per il suo impegno umanitario, da oltre trent’anni opera in prima linea ad Haiti portando aiuto a migliaia di bambini e famiglie e costruendo insieme a loro, con l’aiuto della fede, un futuro migliore. La collaborazione con la Fondazione Francesca Nava e i tanti progetti realizzati in uno dei paesi più sfortunati del mondo Una vita brevissima ma straordinariamente ricca di doni. All’alba del 27 febbraio 1862, confortato dalla presenza della Madonna, Gabriele dell’Addolorata, proclamato santo poi nel 1920, lascia la vita terrena esaudendo così il suo più grande desiderio: raggiungere la casa del Padre. Ventiquattro anni trascorsi con la gioia nel cuore, propri di una vita semplice contrassegnata dall’eroicità del quotidiano. Eloquente l’espressione del suo padre spirituale, Norberto Cassinelli, che in maniera illuminata sintetizza il segreto della santità del giovane passionista: “Quel ragazzo ha lavorato col cuore”. Già, il cuore, un piccolo organo che riesce a superare ogni ostacolo e che rende libero ogni individuo.

Nel mese della ricorrenza della salita in cielo di Gabriele dell’Addolorata, dunque, vogliamo presentare ai nostri lettori la storia – con una parte ancora da scrivere – di un altro “figlio” di San Paolo della Croce. Un altro che col cuore ci ha sempre lavorato… Parliamo di Richard Frechette, 63 anni, sacerdote e missionario passionista americano da quasi trent’anni in prima linea, ad Haiti, dalla parte degli ultimi. Il suo vissuto, come quello di tanti missionari, incarna l’insegnamento principe di Gesù, e cioè venire al mondo non per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita per tutti, come ci ricorda l’evangelista Marco. Ordinato nel 1979 presso il monastero dei passionisti a New York, padre Rick, così come lo chiamano nell’isola caraibica di Hispaniola, per capirci quella dove il 5 dicembre del 1492 sbarcò Cristoforo Colombo convinto di trovarsi nelle Indie orientali, si trasferì in quella terra di disperati per diffondere l’opera di un altro passionista, William Wasson, fondatore di una onlus che soccorre i bambini finiti all’inferno. Parliamo di un paese di 10 milioni di abitanti in cui oltre l’80% delle persone vive in condizioni di povertà degradante e più della metà, il 54%, con meno di un dollaro al giorno. Una terra in cui il 56% della popolazione soffre di malnutrizione, la disoccupazione è al 70%, una persona su quattro non ha acqua potabile a disposizione e un bambino su tre muore prima dei cinque anni di vita. Senza dimenticare il devastante terremoto del 12 gennaio 2010, di magnitudo 7.3 (scala Richter), che causò 230.000 morti, 300.000 feriti e 1 milione di senzatetto. Della serie benvenuti all’inferno… Fu allora che il giovane Frechette comprese subito che un missionario-medico avrebbe portato in quei luoghi una doppia dote… Così, tornato nel paese a stelle e strisce, trasformò nel minor tempo possibile le sue “affinità” con Ippocrate di Kos in una laurea in Medicina, per poi ritornare dai suoi amati bambini. Da quel momento padre Frechette si spende a “ciclo continuo”. Il giorno e la notte per lui non fanno alcuna differenza, è sempre l’ora e il tempo giusto da tendere la mano a una popolazione messa in un angolo, come dicevamo, da terribili sismi, uragani ed epidemie di colera che hanno seminato lutti e dolore. Anche se i segni della sofferenza e dell’indigenza – è bene ricordarlo e ricordarcelo –  ancora una volta portano la firma degli uomini. Il “peccato originale” è stato commesso da quanti si sono resi autori di sanguinosi colpi di stato, di subdole ingerenze straniere, di politiche economiche e sociali sconcertanti. Lo yankee con la passione di Gesù stampata sul cuore, dunque, ha sempre lavorato duramente testimoniando l’amore di nostro Signore. Potremmo definirlo un mendicante di Dio che non ha esitato a scendere nei bassifondi della disperazione. Ha saputo custodire e portare a pienezza il dono della fede regalando speranze e perché no sorrisi a tanti bambini sprofondati nell’abisso. Un ospedale pediatrico, un centro di reidratazione per malati di colera, due ospedali per famiglie, due centri di riabilitazioni per bambini con disabilità, due cliniche materno-infantili, una quarantina di scuole di strada, due orfanotrofi e una città dei mestieri. Queste e altre opere rappresentano il frutto di chi ha gettato il cuore al di là dell’ostacolo. Naturalmente con il commovente aiuto di un team di oltre 1600 persone, tutti ragazzi haitiani nella gran parte recuperati dalla strada, e la preziosa collaborazione di varie associazioni, donatori italiani, aziende private e fondazioni come ad esempio quella di Francesca Rava, una onlus che aiuta l’infanzia in condizioni di disagio in Italia e nel mondo, tramite adozioni a distanza, progetti, attività di sensibilizzazione sui diritti dei bambini, volontariato. Frechette, con grande intelligenza e buon senso ha fatto in modo, però, che la macchina d’aiuti messa in piedi non si limitasse alla “classica” raccolta fondi da poi tramutare in una sorta di elemosina. No, l’obiettivo era molto più lungimirante: creare forme di autosostenibilità. Insomma, imparare a camminare con le proprie gambe… E in questa direzione possiamo dire che quelle gambe negli anni hanno fatto passi da gigante. Certo, c’è ancora tanto da fare, basta pensare alle migliaia di persone che ad esempio ancora vivono nelle baracche in condizioni precarie, ma nel corso di questi anni è stato salvato un numero incalcolabile di piccole vite. Anche attraverso il lavoro degli stessi haitiani, come ad esempio i diecimila bambini che attualmente ricevono pasta e pane prodotti a Francisville, la cosiddetta città dei mestieri.

Spesso nell’immaginario di tanti cristiani la pratica religiosa viene identificata con la preghiera e i vari riti connessi. E tra i credenti è sempre più in agguato la minaccia di affidarsi a un cristianesimo “borghese”, comodo, che non chieda di metterci in gioco… Lo straordinario esempio di padre Frechette e di tanti altri missionari, religiosi e anche laici, invece, dimostra come sia assolutamente più appagante dare anziché ricevere. Mettere cioè al primo posto la sofferenza dei meno fortunati con i quali lottare insieme per eliminare tante ingiustizie.

Da un po’ di tempo inseguivamo padre Frechette, naturalmente consapevoli delle difficoltà proprie di una quotidianità scandita da ritmi e impegni quasi proibitivi. Questa volta, però, siamo riusciti nell’impresa. Ascoltiamo, allora, cosa ha da dirci il suo cuore.

Padre Frechette, quando ha capito che la vocazione missionaria sarebbe stata una maniera per spendere la vita per qualcosa di utile?

Sin dai tempi del seminario ero consapevole del fatto, come ci ricordano da sempre le scritture, che una fede priva di opere era una fede senza vita. Visto allora che il mondo stava mostrando i fallimenti di due guerre mondiali, l’assurdità del conflitto in Vietnam, le frodi dei governi, gli abusi degli eserciti, la cupidigia delle multinazionali, era chiaro che non c’era salvezza possibile attraverso la violenza, il potere o il denaro soldi. All’epoca, dunque, per i giovani come me – parliamo degli anni settanta – solo una fede partecipata rappresentava una valida risposta alle tante ingiustizie e sofferenze.

Perché Haiti?

La prima esperienza nel cosiddetto mondo in via di sviluppo fu in Messico, mandato lì dalla mia provincia a imparare lo spagnolo. La povertà e i problemi di quella gente erano vergognosi, mi avevano disorientato e scoraggiato. Fortunatamente trovai ispirazione in molti religiosi che cercavano di fare la “differenza”. Fu allora che conobbi in maniera profonda un prete americano, frate Bill Wasson. Stava cercando di salvare i bambini che erano caduti nell’abisso della povertà. Così decisi di aiutarlo nell’organizzazione umanitaria internazionale Nuestros Pequeños Hermanos (I nostri piccoli fratelli) da lui fondata. Gli suggerii di allargare lo sguardo anche all’Honduras e ad Haiti offrendomi come missionario. Tutti gli indicatori della qualità della vita, infatti, ponevano i due paesi agli ultimi posti della classifica mondiale. I dati, pubblicati dal Dipartimento di stato degli Stati Uniti, facevano riferimento alla vita media, al tasso di mortalità infantile e dei bambini, al livello di istruzione, alla disoccupazione, eccetera.

Qual è oggi la situazione nell’isola?

Haiti è molto povera, mancano le infrastrutture, non c’è una vera idea di governo. Le persone restano povere e ignoranti e il paese soffre di questa situazione e dei recenti disastri naturali. Gli abitanti – eccetto i gangster – sono spontanei, lavorano duro e sono abituati a soffrire. Inoltre sono pieni di fede e di gioia per la vita.

Di cosa c’è più bisogno?

Come prima cosa è necessario comprendere che lo sviluppo di Haiti deve passare attraverso l’impegno e il governo di leader nativi dell’isola che più di altri conoscono modi e mezzi per garantire una giusta crescita. E non, invece, “importare” governanti e modelli di vita. Dobbiamo essere parte di un network mondiale di persone che sono dalla parte di Dio e che nello stesso tempo sono consapevoli di essere chiamati a una scelta coraggiosa contro il male che nelle sue molte forme distrugge corpi, menti e anime.

Attualmente a quale progetto sta lavorando?

Alla ricostruzione delle comunità e delle famiglie nel sud di Haiti distrutte dall’uragano Matthew.

Che tipo di legame ha con Fondazione Francesca Rava?

È il nostro partner fondamentale in Italia e ha supportato tutti gli aspetti del nostro lavoro umanamente, finanziariamente, tecnicamente e spiritualmente. È nata nel duemila, attraverso una scelta piena di fede e nello stesso tempo coraggiosa, per onorare la scomparsa di Francesca a causa di un tragico incidente. L’impegno di chi vi opera è offrire un aiuto concreto ai bambini in situazioni di disagio in Italia e nel mondo.

La scelta di laurearsi in Medicina è nata solo dalla volontà di offrire un aiuto completo alle popolazioni sofferenti?

Sì, sono diventato medico per aiutare le persone che non potevano permettersi medici e medicine. Nel mio piccolo ho cercato di essere per loro una cura per l’anima e per il copro.

Può descriverci la sua giornata tipo?

Non è semplice in quanto la mia vita è guidata da una parte dalle emergenze di ogni tipo – mediche, morali, sociali, personali, psicologiche, psichiatriche, spirituali e strutturali – e dall’altra dall’impegno per la realizzazione di organizzazioni e strutture che possano aiutare in qualche modo a prevenire eventi drammatici…

Viste le condizioni igienico-sanitarie spesso precarie, ha mai avuto paura di ammalarsi?

Più volte ho contratto malaria, una volta la febbre dengue, ovvero un’infezione tropicale per niente simpatica, il virus Zika e la Chikungunya, una malattia anch’essa virale e trasmessa dalle zanzare. Oltre naturalmente a numerosi e frequenti disturbi intestinali. Fortunatamente, però, posso contare sull’aiuto di una buona costituzione fisica e dell’accesso alle cure. Questo mi ha permesso fino a oggi di continuare senza grossi problemi nella mia missione.

Immagino avrà avuto anche l’occasione di conoscere da vicino le tante gang che imperversano nei territori…

Come tante persone che conosco e che vivono qui da diversi anni mi sono visto puntare pistole in faccia, oltre a ricevere minacce di violenze e di morte. Ogni malattia e ogni minaccia, però, devono essere “contestualizzate”. I primi discepoli e gli autori del Nuovo Testamento, infatti, descrivevano situazioni che tristemente appartengono ancora oggi all’esperienza dei missionari. Molto più drammatiche, comunque, sono le sofferenze e le difficoltà dei cristiani e dei missionari in Siria, Yemen, Egitto e in altri paesi dove sono perseguitati.

Qual è l’insegnamento più grande che ha ricevuto vivendo per tanti anni tra gli ultimi?

Il fatto che tutto ciò di cui abbiamo bisogno per una vita felice e completa è già dentro di noi.

Cioè?

Vivere la fede, alimentare una speranza piena di gioia, un amore fedele, l’amicizia, le ricompense del duro lavoro e del sacrificio, il vivere virtuosamente combattendo i vizi… Tutte queste cose sono gratuite e disponibili, indipendentemente dallo stato di istruzione e dalla condizioni economiche di ognuno di noi.

Come riesce a dominare l’impotenza, propria del limite umano, dinanzi a tanta sofferenza?

L’impotenza ti fa comprendere la grandezza delle piccole cose… La piccolezza è dappertutto quando sei senza potere…

Ad esempio?

Dove metti il piede nel tuo prossimo passo; nell’imparare ad apprezzare ogni cosa, anche quella per te più insignificante, quando sei circondato dalle tenebre; quando fai tesoro di quel piccolo raggio di luce che ti arriva dalla parola o dall’azione di chi ti sta vicino. Gli scrittori spirituali hanno sempre sostenuto che la strada della salvezza inizia dal punto in cui ti trovi. E la mancanza di potere ti mostra il piccolo puntino da dove devi partire.

Se potesse parlare al mondo e ai suoi governanti, cosa chiederebbe?

Di guidare i paesi secondo la luce e le leggi di Dio, di avere la sua stessa visione nei confronti della famiglia umana descritta così bene nelle scritture della tradizione cristiana, e non solo. E ancora di imparare le virtù cardinali e praticarle, imparare i peccati capitali ed evitarli, di pensare, giudicare e agire come se le persone che governi fossero tuoi figli o tuoi fratelli…

Pensando ai tanti volontari laici che desiderano cooperare all’attività missionaria, quali caratteristiche ritiene siano indispensabili?

I volontari devono avere una forte identità personale in modo da essere capaci di annientarsi per poi essere rimodellati da una nuova esperienza, da un mondo che non hanno mai conosciuto e da pensieri e sensazioni a loro oscure che quel mondo ispirerà. Senza questa capacità di avvertire un’ansia salutare che deriva dal sentirsi diversi e strani si diventa rigidi, dogmatici e dispotici e non si è d’aiuto né agli altri né a se stessi. Aiuta anche essere umili, avere un senso dell’umorismo, coltivare vari interessi personali ma nello stesso tempo essere aperti a nuove amicizie ed esperienze. Naturalmente a guidare il tutto dev’esserci la fede che ti orizzonta anche attraverso nuove esperienze, sia pratiche, sia psicologiche.

Qual è la cosa che più le toglie il sorriso?

La morte dei bambini è terribile. In questo momento una madre sta piangendo vicino a me… Non può essere consolata e nemmeno dovremmo provarci. Dobbiamo onorare e rispettare il suo lamento, il suo dolore, come Rachele, nel libro della Genesi, che non poteva essere consolata perché i suoi bambini non c’erano più… Tutto ciò è una profonda tristezza. La povertà delle persone è angosciante, penetrante e totalmente sbagliata. L’apatia del mondo è sconvolgente, come ad esempio l’attuale indifferenza nei confronti della tragedia di Aleppo, in Siria.

Si ritiene una persona felice?

Sono felice quando sono felice, sono triste quando sono triste…

Può chiarirci meglio concetto…?

Talvolta penso che la felicità sia amara perché non può durare; altre volte, invece, trovo che la tristezza sia dolce perché rivelatrice al suo interno di una grandezza e un eroismo. Più che felice, comunque, mi definirei animato, acceso, pieno di vita nella mia risposta interna di ciò che la vita è dentro di me e attorno a me. Questo è un modo soddisfacente di vivere. Se morissi domani non mi sentirei imbrogliato dalla morte perché veramente so cosa vuol dire essere vivi…

Se potesse riavvolgere il nastro della sua vita cambierebbe qualcosa?

Starei più attento nel parlare e nell’agire evitando atteggiamenti che hanno sì soddisfatto la mia rabbia ma nello stesso tempo però procurato dolore senza trovare alcuna soluzione… Nell’invecchiare sto realizzando la grandezza di alcune persone della mia vita che sono morte tempo fa. Mi piacerebbe poter tornare indietro e stare con loro, così come sono adesso, completamente consapevole della loro ricchezza. E non, invece, vivere un rapporto superficiale come ho fatto. Insomma, rimedierei ai miei errori rivivendo con maggiore coraggio situazioni in cui sono stato un codardo… Se potessi rimettere indietro l’orologio, come tanti vorrei vivere la giovinezza con l’esperienza di un anziano. Vorrei non aver sprecato quell’età restando attratto da luccichii fasulli, soprattutto per quello che riguarda il vivere completamente la mia vita religiosa.

Resterà ancora a lungo ad Haiti?

Vorrei restarci sino a quando avranno bisogno di aiuto. Amo la mia vita, il mio lavoro, le mie amicizie e naturalmente il mio Signore. Vivendo in questi luoghi la mia fede è accresciuta.

A proposito di fede, cosa l’ha spinta a entrare nella congregazione passionista?

I passionisti vivevano a poca distanza dalla cittadina della mia infanzia. Erano sempre presenti, divertenti e di sostegno. Pieni di vita e di amore per il prezzo che Dio aveva pagato per salvarci. Il carisma dei passionisti è quello della Passione, il cuore coraggioso su cui è piantata una croce. D’altra parte l’amore si trova in tutte le dimensioni, compresa quella del dolore.

Ha mai visitato il santuario di San Gabriele dell’Addolorata dove riposano le spoglie del giovante santo passionista?

No, non ci sono mai stato.

Pensa un giorno di colmare questa “lacuna”?

Sì, mi piacerebbe andarci in pellegrinaggio.

Papa Francesco ha fondato il suo pontificato sul disperato grido d’aiuto degli ultimi. Qual è il suo giudizio? Ha avuto modo di conoscerlo?

Il pontefice con un nuovo vigore ripete un messaggio antico, di secoli fa, a un mondo che è caduto in un sonno pericoloso. Un torpore che dimentica gli uomini e i loro problemi. Sua santità è profetico, l’ho incontrato una sola volta per pochi secondi alla celebrazione mondiale della famiglia a Philadelphia.

Molti la definiscono un eroe, altri un santo: chi è veramente padre Richard Frechette?

Penso che le persone trovino conforto nel chiamare qualcun altro eroico o santo. Questo, a volte, ci permette infatti di non essere sinceri o coraggiosi e di vivere come se non ci trovassimo in continua lotta. Cosa che invece è la vita… Pensare che il santo è qualcun altro ci consente di restare in questo sonno distratto, dove ci si dimentica degli altri… Sicuramente, come ognuno di noi, ho dei talenti ma nello stesso tempo anche limiti evidenti. Porto nel cuore la mia vocazione e il mio sacerdozio, lavoro duramente per essere un servitore del vangelo in un mondo molto malato. E faccio tutto ciò credendo, come ci ricorda il nostro fondatore san Paolo della Croce, che i rimedi alla malattia si possono trovare nel sacrificio per gli altri, proprio come evidenziato dalla Passione di Gesù. Sicuramente la mia fede è sincera e io ci lavoro duramente. I miei peccati, però, sono sempre dinanzi e a me, e non lo dico in maniera ipocrita. Sicuramente non penso di essere superiore a quello che so di essere.

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