CANA di GALILEA

UN MONDO DI SANTUARI
By Domenico Lanci
Pubblicato il 1 Maggio 2015

è sorprendente pensare che Gesù abbia iniziato i suoi miracoli durante una festa di nozze. Tra i molteplici significati che l’episodio racchiude in sé, tre sono quelli più importanti: il valore del matrimonio davanti a Dio, la dimostrazione che l’amore tra due sposi rappresenta l’immagine più eloquente del rapporto tra Dio e l’uomo, infine la potenza di intercessione di Maria santissima.

Ogni volta che mi imbatto col racconto delle nozze di Cana, resto stupito dalle parole elogiative che il direttore di tavola rivolse allo sposo: “Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono”. Senza dubbio quello resta il brindisi più famoso della storia.

Ma torniamo al vangelo. “Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: Non hanno vino. E Gesù le rispose: Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora. Sua madre disse ai servitori: Qualsiasi cosa vi dica, fatela… Gesù disse loro: Riempite d’acqua le anfore; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto”. Quell’evento, considerato dall’evangelista Giovanni l’incipit della vita pubblica di Gesù, non poteva cadere in oblio presso la prima comunità cristiana. Infatti, in quel sito, fin dal IV secolo, venne edificato un luogo di culto.

Numerose testimonianze lo attestano. Al riguardo, merita attenzione un anonimo pellegrino del VI secolo che scrive: “(Partiti da Sèfforis) dopo tre miglia arrivammo a Cana, dove il Signore fu alle nozze, e ci sedemmo sul medesimo sedile, dove io indegno scrissi i nomi dei miei genitori… delle idrie ne rimangono due; io ne riempii una di vino e, portandola piena sulle spalle, la offrii all’altare e nella fonte stessa ci lavammo per devozione. Poi andammo alla città di Nazareth”.

Va pure detto che la tradizione, lungo i secoli, ha collocato il miracolo in località non attendibili. Solo dal XVI secolo, l’attenzione degli studiosi si spostò al villaggio di Kafr Kanna, corrispondente all’attuale Cana. Qui infatti sono stati ritrovati reperti di una chiesa costruita dall’imperatore Costantino e da sua madre sant’Elena. In più, vi si osservano strutture murarie che confermano l’esistenza di un luogo di culto del IV secolo. I francescani nel costruire l’attuale santuario hanno riutilizzato colonne e capitelli che nello stile richiamano le sinagoghe del III/IV secolo. Non solo. Sotto il pavimento della chiesa è riemersa una iscrizione in aramaico che recita: “Benedetta sia la memoria di Giuseppe, figlio di Talhum, figlio di Butah, e i suoi figli, che hanno fatto questa tabula (di mosaico). Che la benedizione sia su di loro”.

Nel secolo scorso a Cana di Galilea, prima sotto la direzione di padre Loffreda nel 1969, poi sotto la direzione di padre Alliata nel 1997 sono stati ripresi gli scavi archeologici. I due illustri francescani hanno potuto dimostrare che “la sinagoga, costruita su resti di abitazioni precedenti (I-IV sec. d.C.), possedeva un atrio porticato con al centro una grande cisterna, conservatasi fino a oggi sotto la chiesa attuale. Nell’abside settentrionale della chiesa è stata ritrovata un’abside più antica contenente un sepolcro (V-VI secolo). Tale sepolcro, con qualche altro indizio, sostengono i due archeologi, potrebbe indicare una presenza cristiana in loco durante l’età bizantina.

Nel 1879, grazie all’opera di padre Egidio Geissler, i francescani riuscirono a riprendere l’antico sito dell’abitazione degli sposi di Cana. Poi nel 1880 vi eressero un primo modesto santuario che in seguito, con interventi a varie riprese, raggiunse nel 1905 la forma architettonica dell’attuale santuario.

A questo punto, penso che sia giusto spendere due parole sull’uso ebraico di fare le feste nuziali. Nelle nozze di quei tempi, il vino rivestiva un valore simbolico di grande importanza. Era simbolo di fedeltà coniugale. Per cui la mancanza di vino in un pranzo di nozze veniva vista come segno di malaugurio per la sposa che, nel caso in questione, era amica di Maria. Non fa meraviglia perciò se lei, con la tipica sensibilità materna che la contraddistingueva, intervenne per rimediare al grave inconveniente. Come? Ricorrendo con fiducia al potere taumaturgico del figlio. Il dialogo intercorso tra i due singolari invitati pone in risalto la potente mediazione della mamma nei confronti di Gesù.

Un altro particolare merita considerazione. I conviti degli ebrei non duravano un solo giorno, ma più giorni fino a una settimana. Si iniziava con un primo banchetto nella casa dello sposo con i parenti più stretti; poi si continuava nei giorni successivi con la partecipazione, potremmo dire, di tutto il villaggio. Un esperto di antiche usanze ebraiche ha tracciato questa descrizione: “Si servivano le vivande in grandi vassoi con una ricchezza di cibi e di pasticcini che, non essendo caldi, potevano in ogni momento essere messi a disposizione degli invitati, venuti per presentare le loro felicitazioni agli sposi. Gli inviti alle nozze erano generici e approssimativi (chiunque poteva presentarsi per porgere gli auguri agli sposi, ndr), per cui l’organizzatore della festa non era mai in grado di prevedere con precisione la quantità delle provviste occorrenti. Pertanto facilmente poteva accadere di trovarsi di fronte a qualche sgradevole sorpresa”. Ciò che si è verificato a Cana.

A conclusione di questo servizio mi permetto di esporre una personale riflessione. Il miracolo compiuto a Cana richiama prepotentemente quello più sublime compiuto da Gesù nell’ultima cena. Tutti e due intorno a  una mensa. Tutti e due carichi di profondo significato teologico e antropologico. Il primo a beneficio del corpo, il secondo a beneficio dello spirito. Gesù opera i due miracoli in un crescendo inimmaginabile. Nel primo muta l’acqua in vino. Nel secondo muta il vino nel suo sangue. lancid@tiscali.it

 

 

 

 

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